Pietro Roccasecca: mostra personale Della declinante ombra, Museo Carlo Bilotti, Roma – Catalogo De Luca Editori d’Arte 2019
GESTO SPAZIO MEDITAZIONE NELL’OPERA DI VINCENZO SCOLAMIERO
Premessa:
Ammiro il lavoro e le opere di Vincenzo Scolamiero da circa tre lustri, ne conosco il percorso di riflessione e ricerca che ha fatto svanire passo passo la figura nella pittura.
Oggi finalmente posso parlare della pittura di Vincenzo Scolamiero. Posso perché la mia ricerca sulla pittura come processo cognitivo preverbale si incontra con quella di Scolamiero, non so se ci sia una tangenza tra le due ricerche, ma di certo il lavoro di Vincenzo, mi suscita dei quesiti, mi suggerisce delle risposte, che ora comprendo meglio. Una pittura, quella di Vincenzo, che sempre più si distacca dall’universo della verbalità, ma non quello del pensiero, nella rappresentazione del quale, egli invece si educa, si concentra, si libera degli echi disordinati: come in una meditazione da cui scaturisce il gesto pittorico.
Poetica del gesto deciso, rapido, esatto e senza ripensamenti, leggero, fluido, aereo, che nella spazialità in potenza della superficie della preparazione del supporto, crea, definisce, articola uno spazio a misura di un segno che è conseguenza di un movimento, che pulsa di un ritmo interno. Segno che non cancella, ma che (nella trasparenza del pigmento e mediante la geometria lineare delle forme) inventa, costruisce, evoca la dinamica di una coreografia della materia, in cui a danzare è il polso, il peso, la fisicità e la mente di Vincenzo.
Oltre al gesto la materia, anzi le materie, che dialogano e reagiscono tra loro e con i pennelli (costruiti ed inventati da Vincenzo secondo le esigenze dell’opera e del momento). Reazioni del pigmento che – sollecitati dal gesto e dall’incontro di altri pigmenti- creano luoghi, dimensioni e distanze. Inventano forme, che pur non essendo ancora (o non più) figure evocano idee e sensazioni, non solo visive.
Composizione spaziale e musica
La musicalità della pittura di Vincenzo Scolamiero non è soltanto nel gesto pittorico ma anche nella progettazione e nell’organizzazione della composizione spaziale delle opere.
Nel libro d’artista con note autografe di Silvia Colasanti tratte dalla partitura per quartetto d’archi “Ogni cosa ad ogni cosa ha detto addio” (lo stesso titolo di un libro di poesie dedicate a Roma di Valentino Zeichen) si rende esplicito il rapporto della pittura di Scolamiero con la musica. Anche se è importante ricordare subito che l’ispirazione pittorica di Vincenzo è principalmente l’osservazione di uno spazio, di un luogo, che nella pittura diviene oggettivo nel gioco di illusioni spaziali della pittura stessa.
Se la pittura è la costruzione di uno spazio illusorio, la sua composizione ha una natura musicale.
Fatte salve le dovute differenze di tipologia semiotica e percettiva: la pittura ha una natura oggettuale e la musica è un evento. La prima, una volta compiuta, ha una vita indipendente dall’autore e la durata della percezione è decisa dall’osservatore, la seconda esiste nel momento in cui l’interprete la esegue (le registrazioni, i dischi sono delle forme oggettuali di un’arte che ha natura di evento). Infine si deve tenere conto di una differenza sostanziale: in musica il compositore e l’esecutore possono essere due persone diverse, il pittore è insieme compositore ed esecutore (eccetto il caso di un copista o di un falsario).
Per questa ragione, è necessario chiarire che il confronto tra pittura e musica può essere duplice: l’esecuzione e la composizione. Come ho già detto, la pittura di Vincenzo Scolamiero è scaturisce da un movimento (e sul movimento tornerò più avanti) che lascia una traccia, generato da una profonda concentrazione, da una meditazione, che ha inizio già nel momento in cui Vincenzo inventa e costruisce i pennelli ad hoc per la pittura che sta per eseguire.
Per la composizione si deve ricordare che, almeno dalla metà del Novecento, il pittore si è allontanato dalla narrazione e (al pari dell’uomo di scienza) è impegnato nella formulazione di idee e concetti (spesso intraducibili) che come artista traspone in forme visibili. Questa nuova veste del pittore allontana la pittura dal teatro (musicale e no) e la avvicina alla musica strumentale, alla sinfonia.
Il pittore compone forme visibili nello spazio della superficie pittorica come il musicista compone forme sonore nello spazio musicale. Ed è proprio nella costruzione dello spazio poetico che la pittura di Vincenzo Scolamiero trova la sua analogia con la musica e nel movimento, nella dinamica e nelle pulsazioni del ritmo delle pennellate.
Neuroestetica dell’opera di Vincenzo Scolamiero
La ricerca di un equivalente grafico e pittorico di un’idea, la trasposizione in forme visibili di concetti, ha fatto ricorso alla semplificazione delle forme e/o alla liberazione del gesto pittorico.
Un passo ulteriore sulla comprensione dell’arte di Vincenzo si può tentare con un’analisi neurologica della sua pittura. La neurobiologia della visione è una branca, relativamente giovane, della neurologia che studia il funzionamento del cervello agli stimoli visivi. Non è possibile neanche pensare di riassumere qui il discorso della neuroscienza sull’arte visiva.
Proverò a dare un’idea della questione.
Il neurobiologo Semir Zeki a seguito delle recenti scoperte sul comportamento del cervello visivo definisce «la visione come un processo attivo in cui il cervello, nella sua ricerca di conoscenza del mondo, opera una scelta fra tutti i dati disponibili [e] genera l’immagine visiva con un procedimento molto simile a quello messo in atto da un artista»[1].
Qual è il procedimento con cui il cervello genera un’immagine? La luce ricevuta dagli occhi è trasformata dalla retina in un segnale neurologico inviato ad una zona speciale del cervello, che a sua volta la invia ad aree specializzate della corteccia cerebrale che “vedono” il colore, la forma e il movimento ed altre caratteristiche visive. Colore, forma e movimento non vengono “visti” simultaneamente. Il colore lo è prima della forma e questa prima del movimento. I tempi assoluti sono infinitesimali: l’intervallo tra la percezione del colore e del movimento è di circa 60-80 millisecondi; meno di un lampo, ma i tempi relativi sono comunque un lasso di tempo rimarcabile nella sequenza delle attività cerebrali.
Tra i tanti artisti esaminati da Semir Zeki vorrei fare l’esempio di Calder per spiegare come la temporalità della visione e la suddivisione in aree specializzate viene tenuta in conto dagli artisti. Per Calder i colori confondevano la chiarezza dei suoi mobiles e per questa ragione decise di limitarsi al bianco e al nero. Il rosso secondo Calder è il colore che più si oppone al bianco e al nero e alla percezione del movimento. La neurobiologia, scrive Zeki, ha dimostrato che quando si guarda uno schema astratto a colori, l’attività dell’area destinata alla “visione” del colore aumenta la sua attività e quella specializzata al movimento diminuisce. In altre parole l’attività neurobiologica della comprensione del colore prevale e “ritarda” quella del movimento.
Calder fu cosciente dunque di un processo della comprensione visiva che la neuroscienza avrebbe compreso successivamente.
Torniamo a guardare i dipinti di Vincenzo. Dopo quanto detto non si può notare che egli usa principalmente il bianco e il nero e in misura minore il rosso (in alcuni casi un rosa) e l’oro. Il nero definisce il campo di forza in cui le velature di bianco si muovono: del bianco vediamo il movimento sul campo nero. E ora sappiamo anche perché è cosi evidente il senso della dinamica della pennellata bianca sul nero, mentre nei quadri in cui il rosso e oro sono la coppia di colori dominanti l’impressione dinamica si riduce.
Il dipinto da cui vengo più coinvolto appartiene alla serie “Basati su una storia vera” (n. 5, acrilico su tela – cm 80×120). Vincenzo sulla preparazione nera, morbida e pregna di calore, compone le sue forme bianche creando uno spazio per stratificazioni mediante pennellate acriliche: larghe, morbide e sinuose, da cui traspare il nero del fondo; o piatte opache e increspate come carte incollate; o ancora aeree come fiocchi di cotone fluttuanti. Il tutto unito da lunghe stringhe bianche.
La nettezza delle linee segnate dalle stringhe, la loro disposizione diagonale, oltre ad enfatizzare lo spazio “tra” le forme fluttuanti, conferisce loro fisicità, struttura e consistenza materica.
“La scoperta che un ampio numero di cellule reagisce selettivamente alle linee con una specifica orientazione, è stata una pietra miliare nello studio del cervello visivo” scrive Semir Zeki che continua: “i fisiologici pensano che le cellule di questo tipo siano i mattoni con cui viene costruita l’elaborazione neurale delle forme”.
Le lunghe striature dei sottili pennelli assemblati ad hoc da Vincenzo costruiscono le forme nei suoi dipinti sollecitando singole cellule cerebrali e costringendoci a perderci negli spazi evocati alla ricognizione dei rapporti formali messi in atto dall’artista; comprensione che si manifesta e sfugge riproponendosi in continuo.
Tali impressioni visive sono dovute alla dinamica e alla sequenza temporale della visione interna e Vincenzo Scolamiero, come i più grandi artisti visivi, è conscio del processo cerebrale della visione. Tale coscienza gli consente di predire le reazioni del sistema occhi-cervello del riguardante dei suoi quadri sollecitandone l’attività cognitiva neurobiologica.
Scolamiero sollecitando i processi visivi neurobiologici mediante la trasposizione pittorica di idee e concetti spaziali in forme visibili, assorbe nella sua meditazione chi osserva i suoi dipinti e risveglia il godimento del libero gioco di intelletto ed immaginazione.
di Pietro Roccasecca
[1] (Semir Zeki, Inner vision, 1999, trad. it. La visione dall’interno. Arte e cervello Torino, 2003, p.35); tutti i riferimenti ad argomenti di neurobiologica sono tratti dalla succitata opera di Semir Zeki.