Gabriele Simongini: mostra personale Della declinante ombra, Museo Carlo Bilotti, Roma – Catalogo De Luca Editori d’Arte 2019
RESPIRI SOSPESI
Amavo ammirare la bellezza delle cose,
scoprire nell’impercettibile, attraverso le
cose insignificanti, l’anima poetica
dell’universo.
Fernando Pessoa
“Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica e c’è elettricità nell’aria, puoi quasi sentirla. Mi segui? E questa busta era lì, danzava, con me, come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c’era tutta un’intera vita dietro a ogni cosa, e un’incredibile forza benevola che voleva che sapessi che non c’era motivo di avere paura. Mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so, ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte, c’è così tanta bellezza nel mondo che non riesco ad accettarla. Il mio cuore sta per franare”. Non si finirebbe mai di guardare e riguardare la scena magica e ipnotica con la danza nel vento della busta di plastica fra le foglie autunnali immortalata da un capolavoro come “American Beauty” di Sam Mendes, con la colonna sonora di Thomas Newman, uscito nella sale cinematografiche esattamente vent’anni fa, nel 1999. Le parole ispirate di Ricky Fitts rivolte a Jane Burnham, mentre egli le mostra il video della scena che ha girato personalmente, elogiano l’infinita bellezza nascosta nella quotidianità apparentemente più banale, più misconosciuta ed invisibile in un mondo dominato dal pragmatismo, dal consumismo più sfrenato, da una concezione ossessivamente utilitaristica dei rapporti umani, ormai fondati solo sul principio della convenienza. E poi come non riflettere su quel “bisogno di ricordare” tramite le immagini, quel dolce e malinconico ma profondamente necessario perdersi nella vertigine della memoria come fonte di autenticità interiore ed esistenziale con l’illusione di recuperare ciò che è invece irrecuperabile? Il dna trascendentalista del film, il rifugiarsi della bellezza nelle cose minime e trascurate, la continuità che lega gli esseri in un andamento circolare fatto di connessioni misteriose, sembrano riecheggiare, attraverso un percorso a ritroso nel tempo, in alcuni fra i tanti versi mirabili di Walt Whitman: “Il minimo germoglio mostra che la morte non esiste / E che se mai esiste, essa indusse alla vita, e non attese il termine per fermarla, / E non cessò l’istante che apparve la vita./Tutto continua e procede, mai nulla s’annulla, /Morire è ben diverso da quanto alcuno pensava, e molto più fausto”. Quel “mai nulla s’annulla” del canto poetico di Whitman, quella danza della busta di plastica fra le foglie, sullo sfondo di una cortina di mattoncini rossi, mi sono tornati alla mente, mutatis mutandis, grazie alla pittura evocativa, raffinata, sinestetica (pittura che è anche poesia, pittura che è anche musica, pittura che è anche danza) di Vincenzo Scolamiero, solcata sempre da un vento malinconicamente inquieto che è prima di tutto soffio e respiro interiore. Lo si vede bene in tutte le opere esposte al Museo Bilotti, da ammirarsi coralmente come fotogrammi di un film pittorico sulla fragilità ma anche sulla voglia d’assoluto, in una sorta di osmosi ideale fra interno ed esterno delle sale espositive, con quella natura poetica suggerita dai suoi quadri e dalle carte attraverso piccoli, antieroici resti e reperti in un microcosmo fatto di cose minute, ramoscelli, foglie secche, ciuffi d’erba, ciottoli, giunchi, nidi, i cui equivalenti reali il visitatore attento e paziente potrà trovare nella circostante Villa Borghese, prima o dopo aver visitato la mostra. Ma natura “altra” è quella cercata da Scolamiero, immersa in una dimensione quasi amniotica che spesso diventa umbratile e visionaria. Le sue sono “icone ibride” con forme in transito verso il mistero, fluide, in divenire, capaci di annullare qualsiasi distinzione fra astrattismo e figurazione. E il titolo della mostra e di un ciclo di opere qui presentate, “Della declinante ombra”, così remotamente lontano dai titoli “social”, “english”, “hi-tech”, glamour di tante mostre in bilico fra vetrinismo, plagi sociologici, effetto discarica o “luna park style”, ci prende per mano riportandoci, finalmente, sulla via dell’interiorità, dell’illuminazione poetica, in un cammino verso le origini che risale a Celan, a Rilke, a Holderlin, solo per citare alcuni dei riferimenti lirici di Scolamiero, in uno spazio mitico che si concretizza attraverso una pittura capace di essere al tempo stesso densa come un bosco ombroso e trasparente come un cristallo, precisa come una formula matematica ed evocativa come un canto lirico, esistenziale e potente sull’onda dell’eredità informale ma anche lieve e compiuta manifestazione di spiritualità come avviene in ambito orientale. Così il nostro artista potrebbe ben condividere quanto Kandinsky scriveva della propria pittura, definendola “un pezzo di ghiaccio entro cui brucia una fiamma”.
La “declinante ombra” rimanda a un itinerario in discesa, verso il nulla o verso l’Ade, nel mondo ctonio (“Tutto qui in basso è simbolo e ombra”, ammonisce Pessoa col suo tono oracolare), evocando quel percorso che dovrà rifare Euridice dopo essere stata tragicamente guardata da Orfeo, emblema del Poeta: i morti devono essere lasciati liberi ma la poesia dà vita ad una dimensione in cui essi possono abitare (e torna alla mente anche l’epigrafe tombale voluta da Paul Klee: “Nel mondo terreno non mi si può afferrare poiché io abito altrettanto bene tra i morti come tra i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione ma ancora troppo poco vicino”). E Scolamiero pensa soprattutto alla poesia “Orfeo. Euridice. Hermes” di Rainer Maria Rilke, composta nel 1904 e definita da Iosif Brodskij “un sogno inquietante nel quale si conquista qualcosa di molto prezioso solo per perderlo dopo un momento”. Andando in ordine sparso, i versi dedicati agli inferi ci fanno capire tanto anche della pittura di Scolamiero popolata da apparizioni e misteriose presenze/assenze in cui il visibile diventa il tramite che dà forma all’invisibile: “Era l’ardua miniera delle anime./Correvano nel buio come vene/d’argento, silenziose”; e ancora: “V’erano rocce/ e boschi informi. Ponti sopra il vuoto/ e quell’immenso, grigio, cieco stagno/ che premeva sul fondo come un cielo/ di pioggia sui paesaggi della terra”. Così come il nostro artista, nella sua ansia di assoluto, potrebbe far sue queste parole dello stesso Rilke (“Lettere a un giovane poeta”): “Io non sono riuscito ad esprimere […] tutto il mio stupore che gli uomini da millenni abbiano consuetudine con la vita e la morte (e non parliamo di Dio) e stiano ancora oggi (e per quanto tempo ancora?) di fronte a questi primi, più immediati, anzi precisamente unici compiti (che altro mai abbiamo a fare?) così sprovvisti, come novellini, tra sgomento ed elusione, così miserabili. Non è incomprensibile?”. Del resto, le opere di Scolamiero sono portatrici di risonanze poetiche anche nei titoli: “Della declinante ombra”, di cui si è detto, “Come l’aria alla terra legati”, “Lascia parlare il vento”, “Ogni cosa ad ogni cosa ha detto addio” e via discorrendo.
Le forme figurali, oggettuali (fonte di meraviglia inesausta è la danza di veli che solca le sue opere in un inno alla leggerezza spirituale) e naturali, rese metamorfiche dall’artista, vivono in uno stato di sospensione spaziale e poetica che suscita incanto, un “Cristallo di respiro”, per dirla con il titolo della breve ma folgorante silloge poetica di Celan. Eppure nulla hanno di vago o di indeterminato, anzi sono generate da una minuziosa lentezza del gesto pittorico dato in apnea (torna alla mente ancora Celan e la sua “Svolta del respiro”, attimo librato nel vuoto tra inspirazione ed espirazione, in cui si arrestano il tempo, la volontà, l’Io) per non interrompere l’assoluta continuità dell’atto creativo che dà vita ad uno spazio concreto, tangibile, “quasi trompe l’oeil”, ci dice Vincenzo, ben sapendo che la pittura è sempre illusione, capace di aprirsi sulle verità interiori. Così quelle mirabili “casse” di risonanza emotiva che sono i suoi quadri e le sue carte portano con sé la mobile fluidità delle emozioni ma anche una ferrea, lucida oggettivazione che riflette la parte analitica della personalità di Scolamiero (“da giovane – ci dice Vincenzo – ho ammirato e studiato le ‘gabbie’ di Bacon col loro feroce distacco”). E si resta stupiti nell’ammirare questo ossimoro pittorico che rende concreta, materiale, aptica e quasi lenticolare l’ariosa immaterialità conservandone la leggerezza e la trasparenza luminosa. La tirannia e il dominio della superficie vengono scardinati in spazialità policentriche che volteggiano, danzano, si aprono e chiudono davanti ai nostri occhi rivelando infinite potenzialità. E la polifonia di queste opere è ribadita anche dal connubio di volta in volta proposto fra tecniche e materiali diversi, magistralmente modulati in un inesausto elogio dell’atto pittorico: olio, inchiostri, polivinilici, acrilici, pigmenti. Per sua vocazione la ricerca di Scolamiero tende al monocromo inteso come grembo per la nascita dell’immagine che si fa evocazione e comunque ogni sua opera non ha quasi mai più di due o tre colori per rafforzare la serrata ed essenziale concentrazione interiore ed emotiva cui è indirizzato l’artista. In mostra hanno un particolare rilievo i rossi ruggine o sangue dei suoi quadri recenti (dai cicli “In un giro di vento” e “Come l’aria alla terra legati”), alcuni dei quali realizzati per l’occasione, che portano con sé tracce e memorie dei rossi incandescenti e visionari di Scipione, straordinaria stella dalla breve vita che ha illuminato la pittura romana ed italiana con i capolavori dipinti in soli quattro, indimenticabili anni fra il 1929 e il 1933. Ad unire i due artisti, fatte le debite proporzioni, sta un’idea di pittura assoluta: la verità di una rivelazione inevitabile.
Gabriele Simongini