Fabio Pizzicannella, 2003

 

8 Imponderabile vento – 2002 - terre e pigmenti su tela - cm.139x96

L’arte che “serve”. Gli artisti come mediatori culturali
Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Centro per i Servizi Educativi, 2003

“Tu guarda!”. E’ quanto mi viene da dire ogni volta che Enzo Scolamiero m’illustra, nello studio romano, la sua ricerca creativa. E’ raro imbattersi in artisti davvero capaci di dar conto del proprio lavoro. Ma Enzo sa farlo e senza alcun compiacimento. La sua pittura è fatta di colle, terre, inchiostri, rametti raccolti dalle sue bambine e utilizzati come pennelli; lenzuola militari, montate con l’accuratezza di un liutaio su telai da lui stesso costruiti. E la sua arte cos’è? E’ attesa, vigilanza: è un accompagnare la natura nei suoi processi più intimi e farle disegnare forme che “significhino” anche per noi. Dipingere per lui è accennare una forma, ricoprirla, lasciare che dai chimismi della natura ne emerga una nuova da interpretare, accompagnare e ricoprire. E così via, finché le spirali, i tratti, le superfici, che s’inabissano e riemergono, non giungono a comporre un insieme che placa la ricerca e fa dire: “è così”.
“Tu guarda!” – gli ho detto – “il tuo percorso pittorico simula il modo in cui i ciechi costruiscono la loro percezione”. Mi ero accorto, infatti, che la “visione d’insieme” non era per lui un punto di partenza, ma d’arrivo. Un po’ come accade alle persone che percepiscono le cose al tatto: se apprendono un metodo, quei particolari che emergono e si riassorbono nella superficie della loro mente, assumono piano piano la consistenza, la dignità e la pienezza di una forma.
Perché allora non immaginare che un artista possa aiutare chi non vede ad avvertire il gusto di una forma? Così, quando al Centro per i Servizi Educativi s’è cominciato ad organizzare Visit-abile, abbiamo proposto ad Enzo Scolamiero di darci una mano. Attirato con l’inganno nel complesso del San Michele di Roma, è stato accompagnato di fronte ad una volta decorata a grottesche: “Saresti in grado di parlare di questa decorazione e dello spazio che la contiene a persone che non vedono?”.
“Naturalmente no”, ci ha risposto. Gli abbiamo chiesto allora di provarci da artista. Ci ha guardati perplesso e preoccupato. L’amicizia – n’ero certo – supera il buon senso, e così non ha declinato l’invito: “Proviamoci”.
Il 7 maggio, Enzo arriva al San Michele e davanti ad un pubblico di vedenti e non vedenti estrae, come da un cappello magico, gli elementi fondamentali del suo “laboratorio”. Non sa nulla di lettura tattile, eppure il suo intento è rendere “palpabili” tutti i passaggi del suo processo creativo.
Comincia da un fiore secco d’acanto – forma a lui carissima – da cui ha tratto ispirazione per riprodurre le grottesche; consente a tutti di toccarlo e di avvertirne la “pungente” concretezza. Poi passa alla tela grezza, alle terre, ai pennelli-bastoncini, ai pigmenti, alle colle. Tutto è reso accessibile alla vista e al tatto. Conclude con le tre opere che ha realizzato per noi.
Forzando i vincoli della propria espressività, egli si è dato a tradurre la superficie pittorica in una forma riconoscibile da più sensi. Ha diversificato le preparazioni della tela, dal liscio al ruvido, per accennare allo spazio, e ha dato forza al tratto attraverso gocce dense di pigmento e colle. Ha trasformato le variazioni tonali in mutazioni percepibili delle superfici. Ha giocato con le forme per inseguire la natura, con la vista e il tatto, fin nelle sue più segrete evoluzioni. Ha persino tentato di dare il senso della prospettiva: le tre opere di consistenza diversa, via via più fine al tatto, evocano, se poste in sequenza, la presa di distanza dello sguardo, dal particolare decorativo allo spazio architettonico che lo contiene.
Loretta Secchi, la responsabile del Museo Anteros di Bologna, più tardi ci ha esortato alla cautela.
Sperimentalismi senza controllo in ambiti così delicati sono sempre da evitare. Bisogna muoversi con metodo e riflettere ogni volta sull’esito di quanto poniamo in essere. Per non disorientare, per non illudere, per non interferire con processi lenti e spesso fragili d’apprendimento. Io sono completamente d’accordo con lei.
Eppure il ricordo di quel giorno, di un uomo che impegna responsabilmente la sua misteriosa facoltà per dire quello che nessuno di noi vedenti saprebbe dire, ormai è traccia indelebile nel mio cuore e nel mio intelletto. L’arte serve? Non necessariamente. Eppure può servire, a patto che gli esperti tengano sempre a mente che solo ad essa è dato di rendere “palpabile l’impalpabile”