Maurizio Calvesi, 1991

1 Fascine – 1993 – terre e pigmenti su tela – cm.176x176

MAURIZIO CALVESI

In catalogo: “Scolamiero” Galleria “de serpenti”, Roma, 1991

L’arte attuale è segnata, in tutte le sue più valide tendenze, dall’eredità concettuale.
Il concettualismo (momento concluso benché, talvolta, ancora testualmente ripreso) operava con l’immagine e senza, con l’oggetto, la parola e il numero, piegando ogni referente alla funzione semantica di “testo” e individuando dietro ad ogni testo un “concetto”. La riduzione della realtà in ogni sua dimensione, anche storica, a testo e a concetto, corrispondeva a un bisogno di “riorganizzare” le realtà stessa per poterne recuperare il dominio, dopo la passiva ricezione (Pop Art) di mortificanti schemi di inquadramento e di consumo allestiti a propria immagine dal sistema economico-produttivo; passiva ricezione che peraltro faceva seguito alla rinuncia, teorizzata per esistenzialismo dall’Informale, ad ogni forma di progetto.
Riorganizzare invece la fruizione stessa della realtà, per rendere possibile un nuovo (e sia pure mai definito) progetto. La sua eredità, al di là del dissolvimento dei linguaggi concettuali, è questo bisogno di progetto: di inquadramento non subìto ma proposto.
Il che potrà apparire in contraddizione con quella impossibilità di progettare, che sembra connaturata allo schiacciante predominio attuale di una sorta di “fato” consumistico, nel crescere su se stessi dei non-valori del puro mercato, nel vuoto di una cultura sempre più impotente.
L’arte però, quando non si adegua a simili ritmi impoverendosi del tutto, non può che reagire alla minaccia del vuoto.
Come “progettare” allora, in assenza di condizioni favorevoli al progetto? E “che cosa” progettare?
La pittura può comunicare questa esigenza indirizzata ai valori, già progettando se stessa, progettando la propria struttura e funzione di valore, nonché, grazie ad esse, uno spazio ancora “abitabile” per il pensiero.
Forse sbaglio, ma a questa esigenza di auto-progettazione, e di ricostruzione di un simile spazio, mi sembra rispondere la pittura di Vincenzo Scolamiero, già quando si avvicenda in “cicli”, o li scandisce in “trittici”, osservando all’interno di un unitario ciclo di esperienze un certo rigore di procedimenti e “comportamenti”.
Ripromettersi di svolgere un “ciclo”, equivale a programmare un’esperienza, dal suo nascere come idea al suo esaurirsi nello svisceramento effettivo di tutte le possibilità. Concepire poi tele autonome ma raggruppabili in “sistemi” di trittici, vuol dire riconoscere che ogni tele contiene non già l’unicità irripetibile del gesto, ma lo svolgimento di una fase ripetibile, nuovamente sperimentabile in fasi analoghe e ri-aggregabili, tali da costituire ciascuna la verifica dell’altra, ciascuna la conferma dell’altra,  nella restituzione delle molteplici possibilità di un esperienza all’unità ideale del suo significato. Se due è il numero della divisione, il tre, come insegna qualsiasi cabala, è il numero delle riaggregazione nell’unità.
All’interno di questo inquadramento “progettante”, l’esperienza depone se stessa.
La riflessività di Scolamiero si manifesta del resto in modo chiaro parlando con lui. La sua è senza dubbio una pittura “pensata”, non ha nulla dell’estemporaneità  gestuale che fu propria di quel linguaggio cui pure si rifà nell’aderenza stessa alla fenomenologia della materia, cioè l’Informale.
Pensata come specchio e luogo di elaborazione, di un esperienza-specimen fissata per così dire in vitro e coltivata con la linfa di una sensibilità adeguatamente reattiva.
Per ciò Scolamiero compie l’atto di appoggiare alla parete un giunco, questo filo di vita e natura che è poi anche un’astrazione, una linea, con il suo doppio immateriale stampato sul muro, l’ombra.
Il pittore “osserva” (disegna) il giunco o i pochi giunchi appoggiati per diritto alla parete bianca, con la porzione scura di pavimento inquadrata, come una situazione “data” – una presenza nello spazio – capace di sollecitare reazioni associative di forme e colori.
Si hanno così, in sostanza, delle fasce orizzontali di colore assente (il bianco della tela) o terroso (rossastro, bruno), delimitate in alto o in basso da interventi di linee, o bordature, e attraversate dalla traccia verticale, flessa o inclinata, dell’unità-giunco o delle unità-giunchi con le relative ombre, in un sovrapporsi o mescolarsi di freghi neri al fondo di pigmento. Con l’aggiunta di un piccolo, irriconoscibile relitto (un osso animale in una foglia) poggiato sul pavimento, come una muffa con il suo alone sfumato. Niente di naturalistico, nella resa di questa “osservazione”, e neanche di astrattamente geometrico. Bensì un’osmosi di spazi chiusi nei loro limiti ma fluidi e comunicanti, nel trasudo di macchie e nelle fioritura di ossidazioni o grume; nel sovrapporsi o nello sconfinare di un pennello avaro tra le irregolari campiture di fondo, a velature, a tampone. Qualcosa di simile a una lenta, soffocata combustione impegna la materia, ripetendo silenziose cosmogonie, riflettendo l’animazione del pensiero che nella materia cerca di leggere.
Ecco un “paesaggio”  rifatto in pittura pochi, essenziali elementi, i cui spazi, le cui grinze, i cui movimenti, i cui punti fissi potenzialmente contengono combinazioni e rinvii illimitati.
In un filo d’erba sono racchiusi i segreti dell’universo, come pensano i botanici filosofali del Rinascimento, che di questi segreti volevano, per magia, impossessarsi estraendone il succo. Ut superius inferius, il mondo si avvolge su se stesso e le stelle si specchiano nei fiori, o la catastrofe di una galassia in un campo di stoppie. Vero è che questa contemplazione è per noi senza più l’ardimento della magia, è con i limiti di un raziocinio che non può più abolire le proprie “conquiste” , né il piccolo teschio di gatto avvolto in una foglia è talismano o esorcismo, ma traccia di un transito, affievolita senza potersi annullare, testimonianza dell’essere, come testimonianza è la stessa, confluente pittura.
Contemplazione infatti, già con Cartesio, “ridotta” ; ridotta a un riscontro mentale che nella mente fissa, ormai, il minuscolo-sconfinato punto di condensazione di ogni forma dell’essere, il cogito ergo sum. C’è una sorta di cartesianesimo non geometricamente presuntuoso ma umilmente terrestre di Scolamiero, l’incrocio di una verticale e di un’orizzontale che non è più l’utopica chiarezza del razionale, ma resta un “coordinamento” del magma; penso e dipingo dunque sono, penso e costruisco relazione dunque sono, in situazione davanti a un piccolo spazio cioè dentro a uno scarnificato, essenziale teatro del tutto.
Pieno di echi tanto più significativi quanto più silenziosi (nel distraente tumulto del mondo), “insignificanti”.
E così la pittura è tanto più ricca di pathos mentale quanto più povera di mezzi ed effetti. Ricca anche di “progetto”, di auto-progettazione o autoregolamentazione, spendendo parcamente se stessa come per sopravvivere all’assedio. (1991)