Antonio Mercadante, 1987
ANTONIO MERCADANTE
In catalogo: “Scolamiero” Galleria “Al ferro di cavallo” Roma 1987
Cosa segna le figure, i volti, i paesaggi dipinti da Vincenzo Scolamiero, così vigorosi e potentemente espressivi? Nelle ombre, nell’intrico di segni e di colori, si possono certo leggere impronte di nostri parenti ansiosi, tracce di diffuso malessere morale, di insofferenze e indecisioni quotidiane. Ma si deve fare attenzione. Aprire un varco alla metafora farebbe cedere a private tentazioni letterarie, lontane da quel senso primo che si vuole qui invece ricercare. Il senso cioè di una modernità contenuta soprattutto all’interno della pittura, e facilmente decifrabile nelle opere esposte. Il linguaggio di Scolamiero, cresciuto lentamente su se stesso negli ultimi anni e presentato per la prima volta all’attenzione del pubblico e della critica in una fase già piena e matura, si è formato su nodi centrali della cultura figurativa contemporanea. Contatti e collegamenti sono riscontrabili ora su un piano strettamente tecnico-formale, ora su quello di affini impostazioni mentali e metodologiche. Le sue opere non sarebbero, ad esempio, senza l’informale, senza la possibilità di attribuire al segno, alla scioltezza del gesto che genera l’immagine e la struttura, il valore che solo la stagione informale ha evidenziato. A formarne gli strumenti concorrono la tensione ideale che lacera le donne di De Kooning negli anni ’40, e quella invece sempre ancorata ad una “sensation”, che corre sulle tele di Morlotti. Le terre, il bitume, i rossi di cadmio tornano nel lavoro di Scolamiero sulla scorta di una tradizione tutta romana, che suggestiona il pittore più per l’aspetto del rigore morale e intellettuale che non per la sensualità lirica. Ancora: la figura insegue qui un senso pittorico ed uno simbolico, inserisce una massa cromatica fra le altre, con esse dialoga, rotea, s’incunea, assolvendo appieno al compito d’essere anzitutto fatto pittorico, ma anche veicolo di un giudizio puntuale e pressante. Il modo in cui è trattata sembra non ignorare l’uso analogo che spesso essa conserva nelle opere dipinte da Fausto Pirandello durante il quarto decennio del secolo. Come non ritrovare poi nelle ragioni stesse di queste forme l’ansia per il destino dell’uomo, le incognite sulla sua esistenza, tutti gli interrogativi insomma che da sempre affiorano nei volti e nei corpi di Francis Bacon, riletti però in una autonomia di segno e di impostazione che fino adora solo Frank Auerbach, e recentemente, ha mostrato di possedere. Si sono fatti dei nomi, abbiamo indicato delle strade: se qui ci fermassimo, Enzo Scolamiero risulterebbe nella nostra opinione una sorta di catalizzatore, e il suo lavoro uno schermo dove scorrono modi e immagini della storia più recente. Ancora un tentativo per citare e manierare epoche a noi più prossime che non l’arte del tardo rinascimento, e giustificabile proprio in virtù di altri manierismi in voga. La pittura di Enzo Scolamiero assume invece un significato, qui e ora, solo perché invera i riferimenti che l’interprete segnala (fra gli altri possibili e secondo il suo modo di vedere), in una dizione nuova, personalissima. Nelle opere esposte non vi è nulla di palesemente informale o pirandelliano, non c’è il modo riconoscibile di De Kooning o di Bacon. I riferimenti stanno a indicare che esse si inseriscono su un cammino tracciato, approfondiscono una ricerca seguita in vari tempi da altri artisti, con i quali il nostro si confronta mantenendo una indiscutibile autenticità. Autenticità che non va unicamente letta come indipendenza stilistica, ma specchio di un preciso impegno morale che esclude ogni intellettualismo, e risponde con una quotidiana tensione spirituale alle esigenze d’una accesa volontà di consapevolezza. La pittura ricerca l’arte nuova nella continuità, senza cesure né rivolte, né ponti pregiudizialmente abbattuti; ritrova criticamente nella cultura figurativa del secolo, le basi per lo sviluppo di un discorso autonomo. Scolamiero si interroga sulla pittura senza che mai l’opera segni una certezza, un punto fermo, altro se non un gradino dal quale salire, o scendere, su uno nuovo. Il procedimento si può seguire, ad esempio, nella serie delle piccole teste ad olio. La testa è una struttura complessa, suggerisce in sé vari piani, coniuga spazi diversi, presenta all’artista gli stessi problemi di equilibrio in gioco nelle grandi figure. Scolamiero le tratta allo stesso modo, per brani di pittura che si inseguono, dialogano, rimandano frenetici l’uno all’altro e ai piani di fondo. Andando avanti nella serie la forma sempre più posseduta, la si può sintetizzare, quasi intendere per puri valori cromatici e spaziali, libera da indugi descrittivi. I volti piegano verso direzioni che non sembravano contenute nelle prove iniziali: l’ultimo, segnato da un’orbita scura, ripresenta anche nei tratti della pennellata gli andamenti delle grandi tele,lo sfondo omogeneo si sfrangia sulla destra come ad approfondire, e quello sfondamento esprime alla testa un moto che la scardina, la spezza su due piani, la fa girare su un asse obliqui, muove, insomma, un impianto che sembrava fastidiosamente saldo. Nelle composizioni di Scolamiero l’immagine è costruita ad incastri prospettici, ciascun blocco di pittura definisce un cosmo privato, ma la forzata relazione con quello immediatamente contiguo dà un moto fluido scambievole. Lo stesso movimento organizza la costruzione degli spazi sulla tela; l’artista non lo arresta mai, lo insegue, anzi, fino a cogliere un equilibrio strutturale. E’ così nella “Figura in piedi”, al tempo monumentale e raccolta, che sembra girare su se stessa in senso inverso a quello suggerito dalla pedana; o nelle “Tre figure” , che seguono le direzioni indicate dai piani, si pongono in tre diversi spazi, si incastrano l’una nelle altre in un dialogo svolto da toni ocra, dalle terre, dai rossi e mai raccontato. Se ciascun elemento segue una sua logica, e asseconda o trascura le esigenze delle figure in relazione all’unità compositiva dell’intera superficie, il lavoro di Scolamiero assume un andamento originale, che al senso di una evidente figurazione coniuga un’impostazione assai vicina a modi di costruzioni astratte. Com’è nei paesaggi, com’è anche nella struttura bilanciata che sorregge l’impianto del violento e carnale “Ritratto”, quadro fra i più intensi della mostra. L’arte di Enzo Scolamiero persegue con tenacia una sua necessità poetica di rigore inusuale, in una direzione che non concede nulla ad ammiccamenti di gusto e che consente di segnalare in questo lavoro una delle più interessanti e tese esperienze della nostra giovane pittura.
Roma febbraio 1987